Reietta
Vedi scorrerti la vita
davanti, assieme ai mille fantasmi di chi saresti potuta diventare,
di come sarebbero potute andare le cose, assieme all'ombra, pesante,
di come sono andate veramente. E sono andate veramente male. La fuga
non è un'opzione, non questa volta. Non ha funzionato, non
funzionerà mai: non smetterò mai di dire che non si può fuggire da
se stessi, da un ego contorto e autodistruttivo, non si può fuggire
da quel moto oscillatorio che va dall'autodistruzione
all'autoesaltazione.
Ora non hai più nulla, se
non un deserto, attorno a me, inaridito dal fuoco di mille rimpianti
ed errori, scusanti e giustificazioni misere. Ad un certo punto nella
vita arrivi a capire che il tempo che passa non te lo restituisce
nessuno, e che il tempo continua a passare anche mentre sei lì che
ti arrovelli il cervello per cercare di capire dove stai andando,
dove vorresti andare, e come. E sei lì a guardare le lancette
dell'orologio, mentre non vuoi restare eppure non sei nemmeno pronta
a partire. Restare, che senso ha? Partire, per dove? Quando? A che
pro? Non ne vale veramente la pena. Sei in un limbo fatto di un
uragano di indecisioni e insicurezze e frustrazioni, e il risultato è
solo uno, lo stesso che raggiungi da una vita: l'autodistruzione. Del
sé, dei propri sogni, dei propri obiettivi. Non avere più nulla in
mano, non avere nessun punto di riferimento, e ammettere, per la
prima volta, di averne un disperato bisogno. Avere come unico
obiettivo nella vita quello di trovarsi un obiettivo: paradosso
squallido, eppure così reale da poterlo toccare, e sentirsi sempre
ai margini del mondo.
Reietta. Non
è la parola corretta, ma è l'unica che mi viene in mente.
Palahniuk
diceva che quando non si ha più niente da perdere si è liberi: io
mi permetto di dissentire. Quando non hai più niente da perdere
significa che ormai hai perso anche la forza di sentirti libera,
perché anche sentirsi liberi comporta un certo sforzo, cioè quello
di andare avanti. Ed è uno sforzo che non sono più tanto sicura di
potermi permettere. Non si è mai veramente liberi se non si è
felici, e non si è mai veramente felici se non si ha qualcosa che ci
spinga ad andare avanti. E quando la mattina ci si alza con degli
obiettivi, la posta in gioco si alza. Si è liberi davvero quando si
ha tutto da perdere e tutto da vincere allo stesso tempo, perché
quando ormai hai perso tutto sei intrappolato nelle sabbie mobili
dell'esistenza e non hai nemmeno i mezzi per cercare di non
sprofondare.
E
sprofondi.
Sprofondi
e non hai più il coraggio di chiederti perché, di chiederti che
alternativi hai. Ti rassegni e basta.
E
sprofondi. Perché è ciò in cui eccelli, ciò che sei più brava a
fare: svenderti alla miglior angoscia, al miglior dolore.
Sprofondi.
Nella
profonda e perfetta consapevolezza che a mettertici in quella
situazione sei stata tu e tu soltatno, e ti sei magistralmente
circondata di scuse e di giustificazioni più o meno vere, più o
meno plausibili.
Sprofondi
nel più totale disprezzo di te stessa. E ricominci ad odiarti,
inesorabilmente più di prima. Ricominci a farti promesse che sai già
che non sarai in grado di mantenere e che non manterrai, per il
sottile e sadico piacere di farti male, di ferirti e vedere il sangue
colare. Perché non hai mai fatto altro, non hai mai voluto veramente
altro, se non questo: l'autosabotaggio.
E
hai paura a chiederti ad alta voce quando tutto questo finirà,
perché sai già qual è la risposta, ma non hai il coraggio di
pronunciarla ad alta voce, perché sarebbe l'ennesima conferma di ciò
che già sai: non sei nessuno.
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